venerdì 24 ottobre 2008

IL DIGIUNO


La nostra pratica


La lettura della Parola di Dio va dall’Antico al Nuovo testamento. Solo in quest’ultimo però si trovano le chiavi interpretative dell’Antico. E’ come se si leggesse un romanzo che ha solo nella parte finale la chiave delle pagine precedenti.


[18]Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». [19]Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. [20]Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. [21]Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. [22]E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi».



Il digiuno è una pratica molto lontana dalle nostre abitudini e oggi vi rientra solo per dei motivi che non hanno nulla a che fare con la religione. Pensiamo ad es. ai digiuni per dimagrire. Se non digiuniamo però molte volte cerchiamo di avvicinarci al Signore privandoci di qualcosa. Dio però non ha bisogno delle nostre cose piuttosto è Lui che ce le dà. Questo brano di Marco ci permette di metter a fuoco questa grande verità e cioè che l’unico modo per toglierci dall’inquietitudine per una mancata relazione con Dio non è quello di dargli dei nostri sostituti ma noi stessi. Solo così possiamo vivere in presenza dello sposo ed essere veramente nel posto giusto senza altro bisogno se non di gioire con Lui. Quando verranno i momenti bui allora si capirà cosa fare ma finchè non li viviamo dobbiamo approfittare e stare al cospetto del Signore sempre.


GABRIELE PATMOS

Secondo quanto apprendiamo da rav Reuven Roberto Colombo gli ebrei digiunavano per questi motivi: “Tutte le volte che si è trovato a dover fronteggiare un pericolo, il popolo ebraico ha digiunato. Così troviamo che Moshè ha digiunato prima di entrare in guerra contro Amalèk. La ragione di questi digiuni è per affermare che l’uomo non deve prevalere grazie alla sua forza fisica, ma è solo grazie alla misericordia divina, che si ottiene pregando, che l’uomo può sperare di prevalere e vincere in battaglia. Questo, quindi, era anche lo scopo del digiuno osservato da Israele ai tempi di Hamàn e in ricordo di quel digiuno venne istituito un digiuno annuale da osservare in tutte le generazioni lo stesso giorno. Tramite esso sottolineiamo che D-o accetta la preghiera e il pentimento di ogni persona sia nel momento di pericolo che in quello del bisogno. “. Gesù non ha niente contro questo digiuno ma la sua risposta ci fa capire che nella storia è entrato qualcosa di più che la richiesta da parte degli uomini di un aiuto: è entrato lo Sposo divino. La grandezza di questa prospettiva ci fa capire come sia impossibile digiunare quando si è in festa. Gesù però continua dicendo che quando lo sposo non ci sarà più verrà il tempo del digiuno. I discepoli avrebbero dovuto quindi reintrodurre il digiuno dopo la sua ascensione cosa che hanno fatto. Tuttavia se ben guardiamo Gesù non ci ha lasciati soli perché lo sposo lo abbiamo sempre con noi nell’Eucarestia. Se dunque attraverso questa forma lo sposo è sempre con noi percè digiunare? Se infatti siamo nella gioia per la sua presenza come stare in una situazione di privazione se ogni privazione ci intristisce? Forse occorre entrare nelle pieghe della nostra umana realtà per capire come qualcosa che all’apparenza risulta depressiva possa invece cambiare di segno e diventare, non un mezzo per obbligare il divino Dio a darci qualcosa, ma un modo attraverso cui noi offriamo qualcosa di nostro a Dio facendo partecipare non solo la mente e il cuore, ma anche il corpo. Il digiuno allora diventa il nostro modo fisico per dirgli di sì e che ci teniamo a lui non solo a parole ma anche attraverso qualcosa che ci costa. Il digiunare è un modo diverso di declinare la gioia della sua presenza perché proprio nella mancanza, se davvero lo facciamo per aprire un vero canale di amore verso di Lui, troviamo l’appiglio fisico per legarci in modo costante (sull’onda della privazione che dal profondo ci interpella per un significato) al polo a cui abbiamo lanciato il nostro dono e cioè allo Sposo. Ecco perché non si può digiunare essendo tristi perché non testimonieremmo la gioia d’essere alla presenza dello Sposo. Il digiuno non è un obbligo, è un consiglio e non deve essere usato in modo masochistico per punirsi di qualcosa perché la sua gestione è solo una questione di rapporto con il Signore. Solo alla sua presenza possiamo capire se farlo e come farlo. Ora però ci si potrebbe ancora chiedere ma perché non puntare sempre a vivere la gioia che proviene dall’essere con lo sposo? Che bisogno c’è di inventarsi questa via privativa? La risposta è che una nostra parte della vita è esposta al sole e un’altra all’ombra ed è per questo che troviamo conveniente che la nostra umanità viva il suo rapporto con Dio da queste due prospettive. Un’ultima riflessione sul senso del digiuno ci porta a pensare che dal punto di vista simbolico il viverci sempre pieni di cibo abbia il potere di saturare anche le nostre capacità spirituali tanto da renderci indisponibili verso altre visitazioni meno materiali.

GABRIELE PATMOS

giovedì 16 ottobre 2008

Milano - Abbazia di Chiaravalle - Mercoledì 7-10-2008

La nostra pratica


Il rilassamento prima della lettura della Parola serve ad allontanare la nostra attenzione dai pensieri o dagli stati d’animo che sono contrari al silenzio interiore. Il concentrarsi sulle varie parti del corpo è come il completo aprirsi di una finestra alla luce del sole. La luce fugando le ombre farà diventare visibile tutto ciò che sta dentro la stanza e così nello stesso modo attraverso la concentrazione progressiva sulle varie parti del corpo è come se le dotassimo di una nuova consapevolezza. In effetti la concentrazione permette una sensibilizzazione di quelle parti che così vengono maggiormente irrorate dal sangue. In questo modo esponendo il nostro corpo fisico e i suoi sensi spirituali ad un clima di tranquillità noi ci prepariamo nel modo migliore e nel silenzio all’ascolto della Parola di Dio.







Chiamata di Levi e pasto con i peccatori
Marco 2, 13-17



Uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli li ammaestrava. Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì. Mentre Gesù stava a mensa in casa di lui, molti pubblicani e peccatori si misero a mensa insieme con Gesù e i suoi discepoli; erano molti infatti quelli che lo seguivano. [Allora gli scribi della setta dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: «Come mai egli mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?». Avendo udito questo, Gesù disse loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori».



Il Signore esce sempre di nuovo verso di noi: non si ferma mai dal venirci incontro e chiamarci. Ci chiama senza guardare ai nostri meriti o demeriti. Egli non è attirato dai buoni ma da coloro che non hanno mai ricevuto dal loro ambiente una vera chiamata che apra di fronte a loro nuovi orizzonti. Questo sgarbo verso la meritocrazia Gesù la opera per offrire in modo chiaro e netto una visione dell’essere umano come di un essere che non ha alcun merito per il bene che ha dentro dal momento che gli è stato donato dal Padre. L’uomo gioca se stesso solo nel momento in cui accetta o non accetta questo dono. Gesù chiamando Levi gli indica per la prima volta il bene che ha dentro e senza giudicarlo lo invita ad una nuova vita. Con il suo invito accorcia in modo drastico le distanze che le consuetudini difensive degli uomini frappongono nei confronti di coloro che reputano ormai perduti. Il Maestro così ci insegna ad avvicinare il nostro prossimo con la stessa sua divina accelerazione. Inoltre con quel legare la sua venuta alla chiamata dei peccatori ci pone davanti ad un dilemma: noi siamo giusti o peccatori? Dalla risposta a questa domanda potremo capire molto di noi stessi e del nostro rapporto con il Signore.


Gabriele Patmos

mercoledì 8 ottobre 2008

GUARIGIONE DEL PARALITICO



Le quattro persone che portano il lettuccio si danno molto da fare, sono loro che scoperchiano il tetto, calano il malato… E Gesù, vista la loro fede, dice quel che dice e fa quel che fa. Talvolta dunque non è il malato a dover mostrare la sua fede ma chi lo ha preso in consegna. Siamo noi che dovremmo affidare un amico a Gesù, un malato, un povero… Questo testo mi fa pensare che d’ora in poi dovremmo farci carico di qualcuno - anche senza che egli lo sappia - magari uno zingaro, un povero che incontriamo al semaforo, un volto visto in Tv mentre soffre o mentre sbarca a Lampedusa…. presentiamolo a Gesù sul suo lettuccio come fosse il nostro paralitico. E di certo Gesù gli dirà: alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua.

Giusy Deiana

mercoledì 1 ottobre 2008

GUARIGIONE DEL PARALITICO




Marco - Capitolo 2

[1]Ed entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa [2]e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. [3]Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. [4]Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov'egli si trovava e, fatta un'apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. [5]Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati». [6]Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: [7]«Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?». [8]Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate così nei vostri cuori? [9]Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? [10]Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, [11]ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e và a casa tua». [12]Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».



Gesù perdona i peccati. ma cosa significa in realtà questo perdono che nella forma in cui è formulato sembra che ci scivoli addosso senza lasciare in noi traccia alcuna? La congiunzione di alcuni vocaboli in forme trite e ritrite non ci incuriosisce nè ci invita ad una sosta per rintracciarvi un significato più pieno e che ci tocchi nel profondo. Gesù non solo ha offerto al paralitico la gioia di passare un momento importante della sua vita con lui, ma è andato più a fondo con quel: 'Figliolo ti sono rimessi i tuoi peccati'. Anzitutto in contrasto con le attese dei presenti sposta l'attenzione dai mali del corpo a quelli dell'anima sintonizzandosi più profondamente di tutti i presenti con la radice vera di ogni suo male. Egli era legato al suo lettuccio da qual cosa di più terribile che una paralisi esteriore. Il paralitico infatti in tutta la scena è muto, non parla, ma nel vangelo non si dice che egli fosse muto. La parola di Gesù lo richiama alla sua realtà e cioè quella di girare a vuoto in un letto pieno di disperazione da cui non riesce ad uscire. Il peccato del passato non gli permette di affrontare una vita nuova. Gesù quindi ha il potere di ridarci la vita sciogliendo quei nodi del passato che non riusciamo a sciogliere. Chi ha fede in lui sa di aver ricevuto quel perdono ma sa pure che quel perdono opera ancora nel presente. La vita che Dio ancora ci dona fa riaffiorare in noi spezzoni di vita già redenta del passato ma che devono diventarlo a tutti gli effetti anche nel presente. Il ritorno al passato da figlio di Dio riconciliato ci permette non solo ringraziare sempre il Signore perchè ci ha liberati ma anche di misurare la profondità dell'abbaglio in cui si era caduti e di riconoscere come in noi anche nel presente vi sia sempre un fronte di fragilità che echeggia quel passato che per grazia di Dio è stato sanato. Questo rivedere i peccati alla luce del perdono non solo serve a noi come via per una resurrezione sempre più consapevole, ma può anche aiutarci a capire il nostro prossimo.

GABRIELE PATMOS